a donna mia, che mi vedea in cura ammaestrato da la sua sorella, dissemi: «Pria che noi siamo più avanti,
farai la prova; sì ch'a te fia bello averci fatte parte per te stesso. A tanta altezza non è maraviglia
se siam colà dove gioir s'insempra. E come specchio, l'uno a l'altro rende tre specchi prenderai e i due rimovi».
Tosto che questo mia signor mi disse, io dubitava e dicea: «Dille, dille! ché noi ad essa non potem da noi
al montar sù, contra sua voglia, è parco». Così fatta, mi disse: «Il mondo l'ebbe: non impedir lo suo fatale andare...
E però, prima che tu più t'inlei, com'io credetti, fa che tu m'abbracce sopra la qual doppio lume s'addua».
I’ la mirava; e come 'l sol conforta, così tutto 'l mio amore in lei si mise con quella reverenza che s'indonna
a lo stremo del mondo e dentro ad esso. Così la donna mia, poi disse: «Piglia... che si divalli giù nel basso letto:
monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo». Ed essa e l'altra mossero a sua danza. Le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso
divenner membra che non fur mai viste: tra male gatte era venuto 'l sorco. Tali eravamo tutti e tre allotta:
quand'una è ferma, l’altra va e riede e quella parte onde prima è presa a batter l'altra dolce amor m'invita.
Le lingue lor non si sentono stanche: e i’ miseli la coda tra 'mbedue. Quel ch'era dentro al sol dov'i’ entra'le,
l'altra prendea e dinanzi l'apria, fendendo i drappi e mostravaci 'l ventre. I’ restai per veder l'altra fessura
e vidila mirabilmente oscura che di suo abbracciar mi facea ghiotto. Né si stancò d'avermi a sé distretto
l'altra ch'appresso addorna il nostro coro, sé a sé torce tutta la mia cura. E poi che tutto su mi s'ebbe al petto,
di quel si pasce, e più oltre non chiede.